The Cure – Faith

Nel 1981, in un’intervista, il leader dei The Cure, band della quale ci stiamo occupando ora, dichiarava “Ho sempre cercato di scrivere un album che fosse unitario, che spiegasse una certa atmosfera nel suo insieme, perché se vuoi esplorare qualcosa, per farlo ti serve più di una canzone”. Abbiamo estrapolato questa sua frase da una delle tante interviste che abbiamo letto per documentarci di più su questo album del 1981 perché riteniamo che quanto dichiarato da Robert Smith calza a pennello con la realizzazione di Faith, album che chiude la trilogia oscura della band inglese. Infatti, Faith è un disco che … o lo si ama subito o lo si depone nello scaffale per non essere più ascoltato, una produzione che anche se concepita per trasmettere ottimismo si rivela, invece, patologica, il tutto forse dovuto anche al fatto che in quel periodo ognuno dei componenti la band era preso da problemi di natura personale. In Faith ciò che si riesce a percepire è solo un po’ più di credo in sè stessi, nulla più, il resto è solo la storia di un disco “oscuro”, anzi, “dark”. E la stampa, come spesso accade, non fece altro all’epoca, che provvedere a cercare di seppellire definitivamente quel lavoro, ma non senza lo svolgersi di un regolare funerale dove le critiche a non finire erano la nenia che accompagnavano il feretro ai luoghi della sepoltura. Eppure ….. dal punto di vista musicale Faith è un album che mette in mostra la propensione artistica della band verso il rock gotico, il syth pop ed un prog elettrico molto orientato all’ambient, un album che risulta essere comunque curato con arrangiamenti molto ariosi che sanno dare alle composizioni il giusto pathos. L’apertura di Faith ha nelle tonalità suoni che sin da subito precipitano nell’oscurità, ed infatti con The Holy Hour, Robert Smith crea quasi un effetto trance che è ricamato dalla batteria di Tolhurst, un pezzo che sembra essere di buono auspicio ma che in realtà spiana la strada alle profondità più tetre. Nel disco ciò che si riesce a sentire di buona lena è il basso di Gallup che si fa sempre più cupo, pur giocando il ruolo cardine di conduttore di tutta la partitura mentre, la batteria, è sempre più destinata a quel ruolo di produzione ritmica, basilare e semplice, quasi un robot da esecuzione. Le canzoni di Faith affondano in un torpore conclamato, senza via d’uscita e scampo per nessuno, anzi sembrano essere fredde, tristi, paranoiche, capaci di trasmettere ansia a chi ascolta, per finire poi, musicalmente parlando, in una insensibilità unica ed opprimente. Faith è l’album più dark dei Cure, quello che a ragione è stato definito “tetro ed opprimente” da diverse riviste musicali. Sounds ad esempio, uno dei magazine specializzati, scrisse a proposito “Faith, che “l’album richiede un atto personale di coinvolgimento, solo così la ricompensa sarà un forte senso di appartenenza”. Ma anche il Record Mirror sostenne, stroncando completamente la produzione, che “i Cure restano intrappolati nelle tetre atmosfere che avrebbero già dovuto morire con i Joy Division, un album che è vuoto, superficiale, pretenziooi, senza alcun significato, privo di anima e cuore”. E così accade che brani come Primary siano marcati da una cadenza della chitarra che si avvicina molto a cupezze tipiche dei Joy Division con un ritorno poi, ad oscurità che si ritrovano in Other Voices, per sprofondare in seguito nella delicatezza e nella malinconia di All Cats Are Grey. Per fortuna intervengono poi le note di The Funeral Party che la possiamo davvero considerare il diamante di questo album, l’unica vera perla, comunque nera, che sa di una schizofrenia pura e consapevole per giungere ai suoni nevrotici di Dubt, un genuino esempio di post-punk da manifesto. E se con The Drowing Man, Smith produce una voce che sembra giungerci dagli abissi arriviamo alla quasi pigra Faith, i pezzo di chiudura, che la dice lunga sul perché, poi, questo album sia stato proprio intitolato così. Il dark di Faith è comunque in grado di mettere in luce le composizioni liriche del leader Smith, pur nella svogliatezza di una musica che appare contaminata da una pura ricerca di credo e fede. Ma come ebbe a cantare un nostro grande poeta, certo De Andrè, “l’innocente lo seguì ….. sulla sua cattiva strada”.

 

           

 

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