Ragnarök – Ragnarök (1976)

Con un suono interamente strumentale, intriso di atmosfere che inglobano progressive, folk e jazz, i Ragnarök sembrano strizzare l’occhio al sound canterburyano che ha fatto scuola. Ma anche loro, in terra svedese non sono da meno.

Continuiamo il nostro viaggio tra le band che hanno caratterizzato il rock in diversi modi, band spesso sconosciute ma dalla grande ricchezza sonora, un viaggio che abbiamo iniziato con Sagan Om Ringen di Bo Hansson del 1970, e che ora ci porta in terra svedese dove è stato concepito questo Ragnarök, un disco all’altezza di quei grandi album dove prog, folk, jazz e rock si incontrano dando vita ad una miscela di armonia unica che richiama le atmosfere di gruppi ben più blasonati. Assolutamente da non confondere con l’omonimo gruppo neozelandese che del prog sinfonico fecero, in quegli stessi anni, il proprio cavallo di battaglia, questa formazione svedese ha all’attivo ben sette album realizzati tra il 1976, di cui all’esordio che stiamo trattando, ed il 2012. Con questo esordio i Ragnarök diventano immediatamente il tipico esempio di una band che viaggia tra un  progressive dalle atmosfere rarefatte e malinconiche, che inglobano anche una buona dose di folk e jazz, ed una strizzatina d’occhio al Canterbury sound più blasonato. E che il loro sia un suono carico di malinconia lo si capisce dal primo pezzo che fa da apripista a questo lavoro, Farvel Köpenhamn, letteralmente Goodbye Copenaghen, con belle chitarre acustiche che si intrecciano tra loro in una struggente composizione di addio alla città svedese, un brano cupo e struggente con le chitarre che giocano in primo piano, e che rendono immediatamente l’idea di fronte a che genere di musica ci si trova. Con il successivo Promenader, pur mantenendo il principale ruolo malinconico, si viene introdotti in quelle tipiche atmosfere che hanno caratterizzato la dolcezza di alcune ballate dei Pink Floyd ai quali, anche i Ragnarök, in un certo senso si ispirano, anche se poi qui ci troviamo in una sorta di limbo che scorre tra psichedelia ed un soffice suono ben jazzato. Il pezzo è comunque talmente incredibile che se ci riflettete un attimo porta indietro nel tempo a quei fasti di una Mahavishnu Orchestra richiamata dal bel pianoforte che come accade anche per Bo Hansson, mantiene quel tocco tipicamente nordico per poi esplodere in un riff chitarristico di stile tipicamente frippiano. In Nybakat Bröd sembra di viaggiare su linee armoniche di stampo quasi pastorale grazie ad un bel flauto e ad una chitarra acustica che nell’arpeggio melodico, ma ben sostenuto, sembra essere l’anticipazione dei tempi che verranno, insomma una via di mezzo tra le sonorità dei Jethro e certe ballate alla Sinfield che in tanti abbiamo apprezzato. La crepuscolare Dagarnas Skum si presenta come un pezzo che dimostra quanto varie siano le dinamiche compositive di questo bell’album che sembra essere un vero e proprio concept data la sussidiarietà dei pezzi che sono legati l’uno all’altro. Qui si possono respirare le brezze di serate estive di stampo tipicamente nordico perché è proprio il suono che alimenta uno stile tipicamente neo new age. Comunque sia, la bellezza folk leggermente contaminata da un jazz non invasivo, è completata da un bel sound tipicamente progressive, un pezzo questo che dimostra le capacità strumentali dei Ragnarök. Polska Från Kalmar è solo un passaggio di flauto che ci ricorda quel Passaggio del grande Banco presente in Banco Del Mutuo Soccorso del 1972 e nulla più, anche se qui è il flauto ad essere lo strumento base mentre nel B.M.S. era il clavincembalo. Ma il pezzo precedente è anche l’apertura di una nuova proposta sonora che è quello che i Ragnarök ci propongono con il brano successivo, Fabriksfunky, dove sono applicate le migliori influenze fusion che mantengono comunque su un alto grado di qualità musicale le atmosfere che la band ci propone con questo lavoro. Con Tatanga Mani si ritorna ai climi idilliaci proposti in apertura di Ragnarök anche se lo sviluppo del pezzo sembra alimentare sonorità troppo pigre che finora non abbiamo riscontrato in nessun precedente brano del disco. Solo nel finale, grazie a Dio, il pezzo assume connotati tali da renderlo comunque essenziale nella globalità della proposta sonora che i Ragnarök hanno fatto con questa produzione. Fiottot è un’altro passaggio molto breve che registra però la presenza delle tastiere, mentre è un bel pianoforte invece che apre la successiva Stiltje-Uppbrott al quale si aggiungono un bel suono di flauto, la sempre dolce chitarra acustica accompagnata da brevi tocchi di batteria, il tutto a favore di un sound che in un crescendo da fiaba diventa il sunto di tutto ciò che i Ragnarök sono: una delle formazioni progressive più apprezzate, almeno da noi. Ragnarök si chiude un altro pezzo degno di nota come Vattenpussar che si propone con un’entrata da brividi offerta da un assolo di sax straziante al quale si aggregano la leggerezza delle tastiere e dall’onnipresente chitarra acustica. Ragnarök, come disco, ha un suono interamente strumentale, quasi al limite di una colonna sonora, per fortuna che la band mostra anche influenze tipicamente psichedeliche, a volte anche jazz, che stemperano la bellezza di un album malinconico che comunque apre al progressive scandinavo con il risultato di essere allo stesso tempo un lavoro rilassante, avventuroso e che è comunque una gioia ascoltare. Provare per credere.

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