Patti Smith – Gone Again

Il ritorno di un’artista è sempre un’arma a doppio taglio, le esperienze fatte nel silenzio possono rendere l’idea di un cambiamento, la vita stessa a volte lo impone e così capita che i solchi di quel disco del ritorno ha tutte le sfumature di ciò che l’artista ha vissuto. Ma questo capita anche agli esseri normali come noi …. eppure mentre riascolto a distanza di tanto tempo Gone Again, l’album del ritorno della poetessa del rock, a qualcuno potrà sembrare strana l’affermazione che pur non essendo un album degno di Patti è comunque un viaggio nell’anima di una donna. Certo non ci sono le poesie scatenate ed il rock cui la Patti ci aveva abituato ma è comunque un album che parla di morte. Già, come lo faceva spesso Jim Morrison, solo che qui il rock è ben diverso da quello psichedelico del Re Lucertola. Tra alti e bassi i pezzi contenuti in Gone Again non lasciano scampo ad ulteriori interpretazioni ossessionata com’è questa produzione dalla morte dove trovi il tributo al marito, appunto Gone Again, o quell’Abaout A Boy tributo al grande Kurt Cobain. Ma il tributo che la Patti vuole rendere alle persone amate che non ci sono più scivola anche in un ascolto difficile e non facile da digerire perché qui il salto dal rock alle ballate acustiche a volte stonano, per fortuna però che a salvarla c’è quella sua voce così rock e particolare che la riconosci subito tra mille. Comunque sia, il cambiamento dei tempi e le vicissitudini personali portano la Smith a registrare un album che è cupo nel suono tant’è che all’ascolto della seconda parte ci si trova di fronte ad un folk cui la Smith di rado ha fatto ricorso nelle precedenti produzioni. Per fortuna c’è però qualcuno pronto a soccorrerla in tutta questa fase di produzione, e sono le chitarre acustiche che danno l’enfasi necessaria a proseguire su quella strada che improvvisamente, dopo i primi pezzi, sembra perdersi nelle praterie americane. Comunque sia Gone Again è un disco tutto smithiano nel senso che è tutto ciò che lei provava in quel momento colpita com’era stata da ben tre morti e ciò del marito Fred Sonic Smith, del fratello Todd e della sua anima gemella Robert Mapplethorpe. Di quest’ultimo in particolare vi invito a leggere Just Kids, il libro scritto dalla Smith sulla loro storia, che vi porterà a conoscere meglio di chi stiamo parlando e quanto la vita della poetessa sia davvero stata influenzata da quelle vicissitudini. Già dalla traccia che apre e dà il titolo all’album si capisce quanto quest’apertura sia davvero un’elogio funebre per il suo Fred che è dipinto come un combattente che ha guardato verso il cielo e se ne è andato. Nel cuore di Patti c’è tanto dolore per colui che morì nel pieno della sua giovinezza, ma c’è anche la consapevolezza che la gente non ha saputo, come lei, riconoscere la grandezza di quell’uomo perché quando chiese aiuto fu colpito alle spalle anche da quelli ai quali aveva chiesto aiuto. Beneath The Southern Cross continua sulla strada del dolore e del lutto, anche se la Smith nonostante il dolore profondo non è donna da starsene a piangere, ma lotta per rinascere da quelle morti allo stesso modo in cui vuole scacciare via il dolore che l’ha colpita quando ha saputo della morte di Kurt Cobain. Patti Smith non vuole consolarsi con questo disco, anzi tenta, pur celebrando la morte, di essere ancora piena di vita per continuare a combattere per chi non c’è più e per chi ha amato tanto. Ciò che Patti sente è il rimpianto che trapela da Gone Again e lo recita così:

From a chaos raging sweet (Da un caos che infuria dolcemente)

Fron the deep and dismal street (Dalla strada profonda e triste)

Toward another kind of peace (Verso un’altro tipo di pace)

Toward the great emptiness (Verso il grande vuoto)

Se questa non è poesia!

 

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