Patti Smith – Radio Etiophia

Dopo il successo di Horses, Patti Smith, poetessa e cantante amica di Bob Dylan, William Burroghs, Lou Reed, e tanti altri dell’ambiente intellettuale americano, aveva ancora tanto da dimostrare all’industria discografica che prima l’aveva idolatrata e poi quasi scaricata dopo la pubblicazione di Radio Etiophia.Quest’album però, a differenza dell’esordio, si dimostra più orientato verso un suono più rockeggiante ed oscuro, quasi a voler simboleggiare una sorta di appartenenza a quegli ambienti punk rocker dell’epoca.  In realtà, ascoltandolo, l’album dimostra invece una sorta di ricerca di appartenenza ad un nuovo genere di rock, più viscerale di quello sviluppato con l’album di esordio. Si potrebbe aggiungere che il suono di questo Radio Etiophia è molto più sperimentale, più vicino agli ambienti della world music con brani che diventano presto orecchiabili ma che possono essere inseriti tranquillamente tra il genere dei Velvet Underground ed il reggae che, in quel periodo, saltava fuori da un certo Bob Marley. E se l’Etiopia fu la seconda patria di Rimbaud, questa è come una sorta di terra promessa anche per la poetessa del rock, Patti, che non ha mai disdegnato la sua passione per la grande letteratura e la poesia. La Smith assurge qui ad appropriarsi di un linguaggio furioso nei testi che nel cantato, poi, fanno diventare la voce più incisiva e tagliente quasi a voler simboleggiare una specie di vertice dell’ossessione che giunge al culmine proprio con l’omonimo brano che darà poi il titolo all’album, Radio Etiophia. Ma vi sono anche ammiccamenti a quella forma libera di espressionismo tanto cara alla Smith, così come vi si può trovare anche la presenza di alcune preghiere quali Pissing In A River. Radio Etiophia è un album che spesso viene criticato, probabilmente perché in genere il secondo album di un artista lascia molto a desiderare rispetto all’esordio, ma al di là di quanto i critici possano dire per Patti Smith si deve spezzare una lancia a suo favore anche a causa del periodo in cui questo lavoro fu partorito. Le influenze infatti erano molte, ma la Smith, per quanto le si possa criticare, con questo lavoro in realtà apriva una nuova scia tendenziale: infatti, qui la propensione non è quella punk bensì quella di una new wave ben composita, ben lontana dai commercialismi voluti dalle major tant’è che questo fu notato e criticato proprio dal presidente della Arista, che non mancò di affermare che quello era un album a cui mancava il potenziale commerciale voluto. Sarà stato un caso, ma la Smith, come tanti altri suoi colleghi che abbiamo citato all’inizio di questa recensione, ha sempre navigato contro le facili etichettature, e non poteva essere diversamente considerato il suo potenziale sia intellettuale che compositivo. E se in alcuni incipit la voce della Smith può sembrare sgradevole, a volte anche fastidiosa, la sua capacità di penetrazione sta proprio nel proporsi come la scopritrice di quelle sonorità che toccano l’animo e le zone maggiormente indifese della mente ma qui, scusate se dico ciò, la voce della Smith diventa quella che è capace di emozionare di più tra le tante voci femminili della storia del rock, Joplin a parte. Tuttavia, Radio Etiophia è una sorta di esercizio per quanto avverrà nelle produzioni successive. Tra new wave e reggae il rock che ne scaturisce si avvicina molto più ai canoni di un r’n’r dove la band non è più di supporto alla poetessa ma si veste di un proprio “essere”, si fa partecipe di una propria personalità che pur stendendo ottimi suoni lascia poi alla “voce della poetessa del rock” il giusto spazio per esprimersi, e Radio Etiophia diventa, dopo diversi ascolti, qualcosa di eseguito da una intera band piuttosto che un monologo al quale si fa da supporto sonoro. Di sicuro, qui la Smith non si è fatta mancare nulla come già avvenuto per Horses; infatti, se con l’avvio del reggae qui presente il tutto si trasforma poi in un solido rock’n’roll durante il percorso, la chiusura che comprende Radio Ettiophia/Abissinia non manca ad ammiccamenti ad alcune pietre miliari quali Sister Ray dei Velvet Underground o a quella The End dei Doors partorite dalle menti di poeti maledetti quali Lou Reed e Jim Morrison. Ma qui, oltre a loro, nelle pieghe di questo lavoro c’è anche tanta presenza di Stooges e di un certo John Cale che la dice lunga su quanto possa essere stata una cattiva produzione per la Arista. Diceva una volta De Andrè che dal letame nascono i fiori, forse, l’Arista ancora non aveva capito con chi avrebbe dovuto fare i conti in futuro.

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