Lou Reed – Legendary Hearts

1983, Lou Reed si è appena disintossicato dall’alcoolismo e dall’eroina ed è in quest’anno che dà vita ad un album le cui sonorità sono molto più ispirate rispetto ai lavori prodotti negli anni settanta. Certo Legendary Hearts non è come tanti altri lavori che Lou Reed ha realizzato, lavori che hanno cambiato il rock, ma è comunque un buon lavoro capace di offrire un sound molto pulito tranne alcuni momenti in cui, il vecchio cantore della New York sotterranea, fa sentire di che pasta è fatto. E per far capire al mondo quale sia il senso del rock più puro, con Legendary Hearts, Reed conferma quella che è la classica formazione, vale a dire batteria, due chitarre, e basso. Ed è subito consenso anche per Quine ancora al fianco di Reed, ma è anche una novità vedere alla prova un giovane batterista di appena diciotto anni, Fred Maher che, nonostante l’età, fa capire sin da subito il grande musicista che è. Ma come tutti gli album di Lou Reed, anche Legendary Hearts richiede attenzione nell’ascolto ed è proprio quell’attenzione che fa capire quanto il suono di questo lavoro sia essenziale rispetto a Blue Mask, anche se, come al solito i temi che Reed affronta sono ancora una volta legati a tensioni familiari (nel suo caso il matrimonio) e a disperazioni emotive.

No legendary love/Is coming from above” canta Reed in Legendary Hearts il brano di apertura dell’album, sì perché Reed sa qui cosa vuol dire, perché come dice lui anzi, canta, nessun amore cade dal cielo. E tutti i brani qui contenuti se li si possono vedere come fotogrammi di un film, musicalmente sfoderano un rock essenziale e duro in grado di far emergere sensazioni differenti per ogni nota che il CD emana. Forse l’unico aspetto negativo è che Quine è presente con troppi assoli ed il tutto va a sfavore di un album che, Reed, non solo ha intenzione di suonare ma di “raccontare”. Infatti, il poeta maledetto della New York sotterranea continua la sua stravagante descrizione di stati d’animo (i suoi), parla di lui, di sua moglie, della sua motocicletta, il tutto mentre menziona Cristoforo Colombo, Romeo e così via. Ma Lou parla anche di come sia stato tradito da una donna, di come la sua famiglia lo abbia trattato e di come lui sia ancora arrabbiato per questo. Ed il suono continua ad essere sempre gradevole, almeno così ci sembra. Di certo Legendary Hearts è l’album più coerente della, chiamiamola così, trilogia anni ’80, iniziata con Growing Up In Public e The Ble Mask; non contiene neanche pezzi memorabili ma ha comunque un pathos che solo Reed sa donare ai propri lavori. Il suo è un canto che in futuro diventerà la caratteristica principale, anzi, Reed non ha mai cantato nei suoi pezzi, ha sempre conversato e stavolta ha in più, dalla sua, la possibilità, finalmente, di essere sempre più se stesso: quel poeta maledetto che canta del deserto metropolitano come del deserto interiore di ognuno, della desolazione e delle sconfitte e dispiaceri che gli amori possono dare in ogni momento.

Nel disco il basso di Saunders è la base di tutto, il punto di congiunzione tra la chitarra di Reed e quella di Quine; il suono è fluido e ben concepito anche se anticipa un po’ quello che poi diventerà, per alcuni album a venire, il naufragare artistico di Reed in momenti che non gli appartengono ma che la storia non può eludere. Quello che non si può dimenticare però storiograficamente è che dopo questa produzione, l’amico Quine, il musicista con il quale Lou Reed ha tolto fuori tutte le sue capacità strumentali, l’uomo che lo ha migliorato strumentalmente, verrà allontanato dallo stesso Reed per divergenze musicali, o forse perché proprio Quine con i suoi solismi a volte va oltre il proprio ruolo superando Reed. Ma Reed non è disposto ad accettare tutto ciò, lui è il maestro, lui è il mentore e chi lavora con lui deve stare al proprio posto senza compiere un passo in più. Reed è sempre stato così, lui ha sempre fatto quello che voleva, lui ha sempre dettato legge nonostante il suo sia un “legendary heart”.

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