Jethro Tull – Crest Of A Knave

Crest of a Knave , suona in modo diverso da Under Wraps anzi sembra proprio che il suono sia di gran lunga migliore. Fatto sta che questo nuovo lavoro apre il periodo heavy metal dei Jethro Tull. Nei tre anni trascorsi da Under Wraps due cose sono accadute ai Jethro: prima i gravi problemi di voce che avevano colpito Anderson e poi l’improvvisa passione di Martin Barre per il metal. Il disco infatti parte con un trittico di rock che potrebbe sembrare di trovarsi ad ascoltare Poison, mentre questi sono solo i Jethro; Steel Monkey infatti nel suo rockeggiare come al solito si mantiene su temi “politici”, tanto cari ad Anderson, che qui lancia una critica aspra contro l’eccessivo sviluppo delle città a sfavore di quel quieto vivere campagnolo così idolatrato ed amato dai Jethro. E questo accade anche con il secondo pezzo dell’album Farm On The Freeway e in Jump Start dove Anderson tocca il tema dell’alienazione con una bella melodia tipicamente tulliana. Questo disco, poi, si caratterizza anche per il fatto che Peter John Vettese mette da parte i suoi sintetizzatori mentre debutta su un disco della band Doane Perry; il record inoltre si proietta alla conquista di nuovi fan ed al recupero dei vecchi che, dopo gli ultimi lavori infarciti di elettronica, avevano un po’ snobbato i loro beniamini. Fu questo recupero e questo nuovo proselitismo a proiettare i Jethro Tull in vetta alla classifica producendo, per la band,  il primo Grammy dedicato ad un album di heavy metal/hard rock. Ma premi a parte, a Crest of a Knave non sono mancate le frecciatine della critica che ha spesso paragonato l’atmosfera allo stile moody di Mark Knopfler dei Dire Straits con una differenza basilare – aggiungiamo noi: quello di Knopfler è uno stile unico mentre qui, quello dei Jethro, è più ricercato ed elaborato. I testi non sono da buttare anzi, Anderson ancora una volta osserva il mondo dal suo punto di vista più scettico, una visione che è rafforzata da quel background musicale che Crest of a Knave propone. Un bel miscuglio insomma di sensazioni che lascia da una parte stupiti dall’altra perplessi, ma si sa questi sono i Jethro. L’album mosse i suoi primi passi conducendo la band a comporre in una tonalità ben diversa a causa dei citati problemi alla voce di Anderson e così, se da una parte le idee concettuali restano quelle di Anderson, dall’altra il contributo di Martin Barre è ben più considerevole; infatti, per avere conferma di ciò è sufficiente pensare ai pezzi di chitarra acustica contenuti in Budapest in cui Barre sembra davvero esaltarsi. Nel suo complesso compositivo Crest of a Knave sembra voglia proporsi come una produzione grintosa, almeno con Budapest e Farm On The Freeway, ma le influenze di certi tocchi Knopfleriani sono così evidenti anche nel cantato, oltre che nel chitarrismo di Barre, che non si capisce davvero dove i Jethro Tull intendano portare il pubblico. Ma se ancora oggi molti si ostinando ad affermare che in questo lavoro solo Budapest è degna di attenzione, una punta di autocritica ci spinge ad affermare che questo è un album mediocre per una band dalle illimitate capacità compositive. Troppi giochi strumentali, troppe rincorse tra flauto e chitarra a scapito di quella modernità portata in dote da Vettese alla band. Ma la capacità di suonare ogni genere di rock, il ruolo incontrastato di Anderson e tutto il retaggio passato di chi i Jethro Tull li ha ascoltati davvero dentro i solchi dei loro lavori, ci porta a dire che se Crest of a Knave si è guadagnato il Grammy un motivo ci sarà stato. E comunque è risaputo che come diceva il sempre amato De Andrè, “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”.

 

Ti potrebbe interessare