I 101 racconti di Canterbury raccontati da Valerio D’Onofrio e Valeria Ferro

C’era una volta Canterbury, quella più conosciuta, magari per Chaucer o perche nel 560 fu capitale del regno anglosassone del Kent, o perché nel 567 Sant’Agostino fondò la prima diocesi latina della Gran Bretagna. E c’era la Canterbury dove venne ucciso Thomas Becket, lì proprio in quella cattedrale famosa in tutto il mondo, per mano di quattro cavalieri mandati dal re Enrico II Plantageneto a causa della disputa circa l’indipendenza della chiesa inglese. Ma c’è stata anche un’altra Canterbury, quella della seconda metà degli anni Sessanta, patria di una scena musicale innovativa, nata dall’ incontro casuale di una nuova generazione di musicisti di incredibile talento e genialità. Ed è proprio su questi musicisti che Valerio D’Onofrio e Valeria Ferro, entrambi firme di Ondarock e Psycanprog, che hanno realizzato “I 101 racconti di Canterbury. Viaggio nella storia di una (non) scena”, un volume essenziale per chi vuole approfondire questa parte della Gran Bretagna sonora. Ai due autori abbiamo chiesto di parlarci di questo interessante volume che farà  scuola per gli studi musicali.

R. Astore Partiamo dal titolo: “I 101 racconti di Canterbury. Viaggio nella storia di una (non) scena.” Come la intendete questa “non scena”?

V. D’Onofrio In effetti è bizzarro cercare di descrivere la storia di una scena musicale definendola una “non” scena; ma questa definizione non è proprio farina del nostro sacco in quanto sono stati vari dei protagonisti a ritenere che una vera e propria scena non sia esistita, che sia stata una cosa semplificativa se non addirittura giornalistica. E’ indubbio che le differenze tra i 101 album trattati nel libro sono tante ma a loro modo c’è una genesi in comune, la formazione è spesso simile e gli studi letterari anche. La compagnia di amici o conoscenti che si trovavano in casa Wyatt almeno inizialmente ha avuto un substrato comune, poi le strade si sono divise e ognuno dei protagonisti ha sviluppato idee personali e autonome, ognuno confacenti il proprio carattere e le proprie visioni musicali, sempre con grande coerenza e libertà artistica. Daevid Allen ha vissuto la sua vita da hippie fino alla fine, Kevin Ayers ha vissuto da dandy solitario e malinconico, mentre il protagonista a cui mi sento più affine, Robert Wyatt, ha continuato a sognare instancabilmente un mondo più giusto ed egualitario, rendendosi quasi alieno alla sua contemporaneità, quasi un vecchio arnese di un altro secolo, come lui stesso si è più volte definito.

V. Ferro Canterbury è stata indubbiamente la culla di alcune grandi personalità. Nonostante i primi passi in comune, proprio dalle esperienze dei Wilde Flowers sono scaturiti musicisti molto diversi. All’interno dello stesso Canterbury sound coesistono infatti generi persino opposti, che negli anni – come abbiamo scritto – in alcuni casi sono divenuti vera e propria avanguardia. Se all’interno di queste varie compagini si può pensare di paragonare Daevid Allen e Steve Hillage, per esempio, è altrettanto impossibile mettere a confronto Hugh Hopper e Kevin Ayers sul piano musicale. La scena di Canterbury è variopinta almeno quanto il Krautrock, passando dal rock psichedelico al jazz, dal progressive allo space-rock. Se nel Krautrock il collante era stata la figura onnipresente di Rolf-Ulrich Kaiser, nelle vicende canterburiane è difficile trovare un’unica figura chiave. Daevid Allen è stato fondamentale all’inizio almeno quanto i genitori di Wyatt. Ma dopo quei giorni ognuno ha intrapreso una sua strada che li ha portati qualche volta a reincontrarsi. Nell’introduzione abbiamo cercato di mettere a fuoco le varie anime della scena, raccontando gli inizi di questa storia per poi concentrarci su quattro personalità in particolare (Allen, Ayers, Wyatt e Richard Sinclair) a cui abbiamo affibbiato un “soprannome”.

R. Astore Per l’introduzione a questo interessante volume vi siete affidati a Fabio Zuffanti. Perché questa scelta?
V. D’Onofrio Fabio Zuffanti è semplicemente un monumento del rock progressivo italiano, oltre ad aver scritto vari libri che ho letto con enorme piacere. Inoltre è una persona di rara disponibilità e generosità, cosa che nel mondo della musica non è frequentissima; la scelta è stata quindi naturale.
V. Ferro Zuffanti rappresenta in Italia un’istituzione per quanto concerne il progressive e tutto ciò che ruota attorno a questo. Per la stima che nutriamo in lui come musicista e scrittore abbiamo voluto proporgli di stenderci una prefazione… e fortunatamente ha accettato!

R. Astore Per realizzare un volume così particolareggiato di certo vi sarete divisi i compiti. Ecco, in che modo è stato pianificato l’immenso lavoro che avete realizzato?

V. D’Onofrio Ho conosciuto Valeria navigando su internet, trovandomi per puro caso nel suo piccolo blog; leggendo mi sono reso conto di quanto fosse brava, preparata e soprattutto con gusti molto simili ai miei. Ho quindi deciso di contattarla e da lì è nata una collaborazione molto proficua e sincera che spero continui; non c’è mai stata alcuna forzatura o attrito, semplicemente ci capiamo al volo senza bisogni di grandi discussioni. Altro elemento utile è stato che, sia per la stesura di questo libro che per la lunga monografia sul krautrock scritta per ondarock, c’è stata una grande complementarietà; lei era esperta in cose che io conoscevo meno e viceversa; ci siamo trovati benissimo, devo dire che da solo non ce l’avrei fatta.

V. Ferro Con Valerio si è creata un’intesa spontanea e complementare. Abbiamo stilato la lista degli album in una cartella, dividendoci i compiti. Alla fine ognuno ha integrato le parti scritte dall’altro, così che il libro fosse unitario. La cosa buffa è che ogni tanto rileggendo non capivo se una parte fosse stata scritta da me o da lui!

R. Astore Il sound di Canterbury ha influenzato anche alcuni gruppi tricolori dei quali parlate nel vostro lavoro. Ci spiegate meglio come è avvenuta la selezione degli italiani?

V. D’Onofrio La scena di Canterbury ha influenzato gruppi in tutto il mondo; possiamo trovare gruppi influenzati dalla scena in Francia, Germania, Spagna, Danimarca, Stati Uniti, persino Brasile e addirittura URSS prima della caduta del muro. L’Italia è stata sopratutto terra di rock progressivo ma anche Canterbury ha influenzato, sopratutto il versante del Rock In Opposition è molto nutrito. Mi fa piacere notare che negli ultimi anni tantissimi gruppi italiani stanno riscoprendo le sonorità della scena e nel libro vengono segnalati.
V. Ferro Non è stata una selezione facile! Diciamo che è spesso difficile in Italia discernere il Canterbury sound dal progressive tout-court. Dal mio punto di vista un elemento chiave è stata l’ironia, ma anche quella nostalgia che solo alcuni dischi dei Caravan, per esempio, sanno dare. Più facile è stato selezionare quelli che si collocano per affinità sul versante del RIO (alcuni sono fenomenali, come gli Allegri Leprotti).
R. Astore Come si riconosce un brano canterburiano? Quali sono gli elementi che lo caratterizzano?

V. D’Onofrio Questa è una domanda difficile perché anche i musicisti della scena ti risponderebbero in modo diverso. Quello che ho cercato di comunicare nel libro è che Canterbury è stata come un’isola che si è appunto “isolata” dal resto del processo evolutivo del rock britannico e ha sentito meno le influenze del blues o di gruppi in stile Cream. Non è stata neanche contaminata dall’influenza pervasiva di grandi etichette discografiche che l’hanno fortunatamente ignorata ritenendola poco spendibile. Inoltre nel periodo in cui i musicisti prog cercavano di rifarsi alla musica classica proponendo brani di enorme complessità tecnica a Canterbury si guardava più al jazz con un stile ironico e indolente.

V. Ferro Generalizzare è sempre difficile, ma ci provo. Direi un mix di avanguardia, ironia, malinconia, stupore e meraviglia senza le crisi virtuosistiche del progressive. Le stesse suite di Canterbury non sono permeate dagli esasperanti tecnicismi del prog-rock e possono essere apprezzate anche da chi, per esempio, non gradisce gli Yes.

R. Astore Nella prefazione al libro, Zuffanti fa capire l’evoluzione del Canterbury sound, poi il tutto è approfondito dal vostro lavoro arricchito nella parte conclusiva da interessanti interviste.

V. D’Onofrio Abbiamo cercato di contattare esperti che ritenevamo complementari e diversi tra loro; conosco Antonello da tempo e so quanto poteva dare come analisi, non solo musicale ma anche storica, al libro. Guido Bellachioma conosce praticamente tutto del progressive rock ed è stato un onore ospitarlo. Stesso discorso vale per Claudio Fabretti con il quale abbiamo, sia io che Valeria, il piacere di collaborare da anni. Nonostante la sua passione primaria credo sia quella per la new-wave, la sua esperienza d’ascolto e la sua profonda cultura musicale non poteva che arricchire il nostro testo.
V. Ferro Guido Bellachioma, Antonello Cresti e Claudio Fabretti sono tre personalità interessanti per quanto riguarda la critica musicale di oggi. Conoscendo il loro lavoro, abbiamo ritenuto interessante avere una loro opinione. La scelta di Orlando si è rivelata molto utile, invece, per conoscere molti retroscena.

R. Astore La scena di Canterbury si sviluppa lontana dai fasti londinesi e si può dire e nasce quasi in casa di Robert Wyatt. Chi è in realtà questa figura.

V. D’Onofrio Nel libro lo abbiamo definito il jazzofilo marxista. Ma quello che ho sempre notato in Wyatt è una profonda malinconia e una totale incapacità di accettare ogni forma di violenza o di ingiustizia, sia che essa si manifesti sotto forma di razzismo o di guerre che lui chiamerebbe imperialiste. Per lui lo stato sociale rappresenta il punto più alto raggiunto dall’uomo nel ventesimo secolo, non nega la ricchezza ma pretende che tutti debbano vivere in modo dignitoso. Certamente gli eventi della vita si sono accaniti in modo davvero duro su Robert, ma in ogni occasione sfortunata ha sempre trovato le energie per rialzarsi più forte di prima. Quello che ho definito nel libro “un abbraccio all’umanità intera” lo ha portato a scrivere i più grandi capolavori della scena. La sua adesione all’estrema sinistra nasce proprio da questo e a differenza degli attuali “riformisti” che hanno aderito a braccia aperte al capitalismo trionfante lui è rimasto coerente a se stesso.
V. Ferro Secondo me è parzialmente incorretto dire che si è sviluppata lontana dai fasti londinesi: ti spiego perché. Senza dubbio i genitori di Robert Wyatt sono stati delle persone magnifiche, dei mecenati illuminati. Eppure, se in quella casa i giovani Ratledge, Wyatt, Ayers ecc. sono stati educati musicalmente lontani dalle mode di Londra, è altrettanto vero che i Soft Machine nascono proprio a Londra. Mi sono chiesta spesso come sarebbero stati accolti i Wilde Flowers se avessero suonato nella capitale inglese. Probabilmente non benissimo: erano un po’ datati rispetto ad altre band del periodo, seppur ci siano state intuizioni geniali (si pensi a “Memories”). Pochi anni prima, al Daevid Allen Trio – che a mio avviso nel loro repertorio avevano dimostrato una marcia in più rispetto ai Wilde Flowers – non era andata bene a Londra. Per quanto riguarda Robert Wyatt è senza dubbio una delle figure di spicco della scena di Canterbury. Una personalità difficile da etichettare, eppure penso che in tutte le sue scelte musicali (e non) sia stato guidato da una sensibilità fuori dal comune: in questo senso, la definizione più bella l’ha data sua moglie Alfie, dicendo che gli manca quella parte dell’epidermide che rende impermeabili alle disgrazie del mondo.

R. Astore I Caravan sono quasi il contraltare dei Soft Machine per la varietà dei suoni di cui sono intrise le loro composizioni. Di certo i Caravan sono più melodici e pop rispetto ai Soft. Ecco secondo voi quale è la vera linea di confine tra queste due band?

V. D’Onofrio Secondo me i Caravan sono stati fondamentalmente un gruppo prog con sonorità molto romantiche e con una qualche affinità con la musica jazz. I Soft Machine inizialmente hanno una maggiore componente psichedelica e il suono era ben poco romantico e per nulla progressive. Anche l’ascolto del minimalismo americano ha indubbiamente influenzato, ricordo che Daevid Allen aveva collaborato col maestro Terry Riley.

V. Ferro Secondo me è l’avanguardia. I Soft Machine, specie agli inizi, erano stati influenzati largamente dall’ammirazione di Allen per due artisti come Terry Riley e Steve Reich L’idea dell’australiano di coniugare avanguardia e rock psichedelico è stata davvero innovativa per l’epoca e lo stesso Ayers nei suoi primi album solisti metterà in pratica quella lezione. Nel libro abbiamo sottolineato questo fattore più volte, definendo Allen come un ponte tra queste due istanze: prima di allora nessuno aveva osato tanto. I Caravan da parte loro hanno saputo coniugare gli elementi del progressive al loro prototipo di un jazz nostalgico, correlando la loro musica con testi davvero ironici e surreali.

R. Astore Parliamo del libro. Come è avvenuta la selezione dei dischi che vi sono recensiti?

V. D’Onofrio Dopo aver selezionato i grandi classici della scena abbiamo cercato di premiare l’originalità, segnalare album diversi tra loro e cercare di coprire ogni periodo storico per dare una continuità alla storia della scena come fosse un racconto. Cerchiamo di far capire che la scena non termina negli anni settanta ma che anche nei decenni successivi ci sono album da ascoltare con interesse.

V. Ferro Molti sono ovviamente i dischi capisaldi del Canterbury sound, quelli che tutti gli appassionati conoscono. Per quanto riguarda gli altri, abbiamo cercato di approfondire quelli che abbiamo ritenuto più consoni al percorso e alla nostra scansione cronologica degli album. Il nostro intento è stato quello di raccontare una “storia” lineare, dividendo gli album all’ interno di capitoli che vengono presentati con una loro introduzione. Per fare questo abbiamo ascoltato una marea di dischi e quelli che abbiamo escluso li trovate all’ interno della discografia approfondita finale. Un esempio lampante è quello di Allen: si parla poco della sua carriera solista, eppure dagli esordi con i Gong era approdato attraverso gli anni a una forma di cantautorato ben lontana dagli stereotipi del “fattone spaziale”, trattando temi anche piuttosto complessi.

R. Astore Vi pongo la stessa domanda che avete posto nelle interviste riportate nel libro ad alcuni critici: “Tra i vari musicisti di Canterbury ve ne sono alcuni che spiccano per importanza, voi a quali vi sentite più legati?”
V. D’Onofrio Come ho già detto io sento una grande affinità sia musicale che umana e politica con Wyatt ma ho apprezzato anche gli altri protagonisti, in particolare la loro coerenza e il loro totale disinteresse per la fama e per il numero di album venduti. Wyatt, Allen, Ayers o anche il dimenticato Hugh Hopper hanno sempre cantato se stessi, senza nessun compromesso; in un’epoca di orribili “Talent Show”, dove i principi di Wyatt e compagni sono ribaltati di 180 gradi, credo che questo sia abbastanza per amare ognuno dei protagonisti delle scena.

V. Ferro Se Robert Wyatt ha avuto un’enorme rivalutazione negli anni, non si può dire lo stesso per Kevin Ayers. Kevin nei suoi primi dischi ha saputo coniugare avanguardia e melodie pop come pochi altri, oltre ad aver dimostrato – anche negli anni Ottanta – un songwriting davvero eccelso. Certo, a lui la fama non era mai interessata, però avrebbe comunque meritato molta più attenzione. Spero che le cose cambieranno in futuro. Probabilmente lui e Allen sono i musicisti a cui mi sento più legata, senza nulla togliere all’enorme rispetto e ammirazione che nutro per Wyatt come uomo e musicista.

R. Astore Nel libro ci sono anche delle riflessioni sul Rock in Opposition. Ce ne volete parlare?

V. D’Onofrio Le idee del Rock In Opposition sono quelle del manifesto scritto da Cutler, che riportiamo integralmente nel libro. Sono idee figlie della stagione politica degli anni settanta ma sono ancora attualissime e condivisibili punto per punto. Per gli esponenti del RIO, che riprendono una frase del regista John Grierson, “l’arte non è uno specchio, è un martello”. L’arte deve forgiare una nuova società, non descrivere quella esistente. Quindi il loro approccio era totalmente alternativo nella struttura musicale e hanno rappresentato una vera avanguardia che ha unito rock, teatro espressionista, le opere freak di Frank Zappa e gli ideali anticapitalisti. Il loro è stato un approccio alternativo all’idea di musica rock e del ruolo che il musicista deve avere nella società, un accostarsi al mondo delle major in modo indipendente e non subalterno.
V. Ferro Il RIO è stato un evento collaterale a Canterbury, nato con intenti rivoluzionari per quanto concerne il mondo dell’industria discografica che volevano letteralmente sovvertire. Non è un genere facile al primo ascolto, per i neofiti consiglio di procedere a piccole dosi!

R. Astore Nel Canterbury Sound dove finisce il suono e dove comincia il messaggio politico?

V. D’Onofrio Il messaggio politico c’è in Wyatt da un certo momento in poi (diciamo dopo il secondo album dei Matching Mole) e in tutto il RIO. Per il resto Canterbury è stata spesso molto disimpegnata come buona parte della musica progressiva.

V. Ferro Per Wyatt il confine è veramente sottile, eppure lui stesso non si è mai visto come un politicante, piuttosto come uno intento a mettere qualche segnalibro nella storia, come lui stesso ha più volte ribadito.
R. Astore Picchio Dal Pozzo, Stormy Six,  Perigeo, Area etc. Ci parlate dei gruppi italiani che hanno subito le influenze canterburyane?

V. D’Onofrio Noi ne segnaliamo 21 ma in realtà sono  molti di più. I gruppi che ritengo più canterburiani in assoluto sono i liguri Picchio dal Pozzo e, più recentemente, i siciliani Homunculus Res.

V. Ferro Quelli che hai citato sono indubbiamente gli artisti più storici e conosciuti, ma è interessante sapere che l’influenza del Canterbury sound continua fino ad oggi: i Winstons ne sono un esempio.
R. Astore Sempre nel libro ci sono interessanti interviste ad Antonello Cresti, Guido Bellachioma, Claudio Fabretti  e a  Orlando Monday Allen secondogenito di Daevid Allen dei mitici Gong. Quanto è stato utile incontrarli per sviluppare la vostra proposta?

V. D’Onofrio Tutti hanno dato la loro visione differente, con punti di vista prese da angolazioni differenti. L’intervista di Orlando Allen poi è stata la ciliegina sulla torta perché ci ha fatto entrare proprio dentro la realtà della vita di Daevid Allen e questo non ha fatto altro che confermarci la sua grandezza e la sua coerenza.
V. Ferro Molto. Ci interessava avere opinioni esterne, in quanto la verità universale non la possiede nessuno. Per questo nel libro abbiamo cercato di essere più equi possibile. Il figlio di Allen è stato davvero molto gentile, ci ha dato suggerimenti preziosi oltre ad averci reso disponibili alcune fotografie. Penso fosse un modo per sentirsi anche più vicino ai suoi genitori, un lutto che non ha ancora superato.
R. Astore Perché acquistare questo bel volume?

V. D’Onofrio Credo che il libro sia scritto con grande passione ed è figlio davvero di migliaia di ascolti. Chi conosce parte della scena di Canterbury potrà avere un quadro più completo, chi non la conosce potrà spalancare davanti ai suoi occhi un Universo totalmente nuovo che potrebbe fargli passare ore e ore ad ascoltare album incredibili. E’ comunque un tassello fondamentale per chi vuole conoscere la storia, più grande, della musica popolare in genere.

V. Ferro Penso che il libro sia stato scritto con il cuore e la passione e la cosa si senta. Abbiamo cercato di accontentare con tanti aneddoti e curiosità sia i neofiti del genere sia coloro che già conoscono la scena.
R. Astore Altri progetti imminenti?

V. D’Onofrio Si, certamente scriverò ancora su Ondarock che è un sito che amo e a cui mi sento molto legato. Spero nel 2018 di pubblicare un libro sul Rock in Opposition, sarebbe il perfetto completamente di questo.

V. Ferro Mi piacerebbe molto scrivere qualcosa sul Krautrock o sul Rock In Opposition. Non faccio però piani però, vediamo cosa ci riserva il futuro!

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