Intervista a Paolo Carnelli autore di “Pawn Hearts” dei Van Der Graaf Generator

Paolo Carnelli inizia a scrivere di musica nel 1994, quando viene coinvolto nel progetto Wonderous Stories, prima fanzine e poi rivista a tutti gli effetti dedicata al rock progressivo. Nel 2001 assume il coordinamento editoriale della rivista fino al 2012 contribuendo all’evoluzione della stessa in un nuovo progetto multimediale, denominato OPEN, che ha ufficialmente preso il via a dicembre del 2013. Nel 2003 insieme a Riccardo Storti e Donato Zoppo firma il libello “Racconti a 33 giri”, dedicato al pop italiano degli anni 70. Sempre nel 2013 Carnelli diventa redattore della rivista SUONO, la più antica rivista di musica e alta fedeltà in Italia. Dal 2005 scrive anche per altre testate quali Musikbox, Raro, Metal Shock, Colossus Magazine,Contrappunti, Dusk e collabora con diversi siti e portali come Movimenti Prog, Artists & Bands e Extra Music. In particolare dall 2012 collabora con la rivista Suono, che si concretizzata in alcuni articoli di approfondimento su Van der Graaf GeneratorPeter HammillTalking Heads The Trip pubblicati nell’inserto “I colori del suono” di Guido Bellachioma. Nel gennaio del 2012 pubblica per Arcana il volume “Van der Graaf Generator – La biografia italiana“, 240 pagine dedicate alla storia italiana del gruppo prog inglese e nel 2015 pubblica un saggio sull’album dei VdGG “Pawn Hearts“. Coordinatore editoriale presso PROG Italia, lo abbiamo contattato per parlare, guarda un po’, di musica e ne è nata questa piacevole chiacchierata su questo suo ultimo lavoro.

Raffaele Astore: Nel tuo libro su “Pawn Hearts” dei VDGG, affermi che questo disco rappresenta un punto di non ritorno per la band. I motivi, come dici tu, sono molteplici. Ce li illustri in breve?

Paolo Carnelli: Prima di tutto è opportuno ricordare che “Pawn Hearts” (ottobre 1971) è il quarto album dei Van der Graaf Generator. I tre lavori precedenti, pubblicati tra il 1969 e il 1970, non avevano riscosso un grande successo in termini di vendite, nonostante i tanti concerti in giro per il Regno Unito e una sfortunata tournèe in Germania e Svizzera nella primavera del 1971. Nella band iniziava quindi a subentrare una certa stanchezza e sfiducia, considerando anche che la stessa etichetta del gruppo, la leggendaria Charisma Records, cominciava ad avere dei dubbi sul fatto che si trattasse effettivamente di un progetto valido e sostenibile. Anche se il proprietario della Charisma, Tony Stratton Smith, è passato alla storia come un simpatico e originale mecenate sempre pronto ad alzare il calice per accogliere e finanziare ogni tipo di idea, la realtà è che la Charisma era un’azienda a tutti gli effetti e come tale doveva necessariamente puntare ad ottenere un ritorno economico dalle sue produzioni. “Pawn Hearts” rappresenta la reazione del gruppo a tutto questo insieme di cose: una reazione alimentata da una voglia di rivalsa quasi disperata. Se il mondo non aveva capito i Van der Graaf Generator, i Van der Graaf Generator invece di immergersi nel mondo decisero di elevarsi nella stratosfera e dare vita al proprio personale monolito sonoro. Non a caso la stessa suite che occupa per intero la seconda facciata dell’album, A Plague of Lighthouse Keepers, precede di qualche mese altri esperimenti simili come Supper’s Ready dei Genesis, Close to the Edge degli Yes o Thick as a Brick dei Jethro Tull.

Raffaele Astore: “Pawn Hearts” coinvolge una serie di personaggi che potremmo ben dire si sono dimostrati fondamentali sia nella realizzazione del disco che per il progressive in genere. Ne cito alcuni ai quali tu hai anche fatto riferimento: Tony Stratton Smith, Robert Fripp, Sir George Martin. Senza la presenza di tali nomi, il disco dei VDGG avrebbe meritato il ruolo che ha nella storia evolutiva del progressive?

Paolo Carnelli: Io credo che il personaggio più importante per la realizzazione di “Pawn Hearts” sia stato il produttore John Anthony. E’ lui che si è reso di fatto disponibile a recepire e interpretare tutte le richieste tecniche provenienti dalla band, permettendone la realizzazione. Durante la registrazione dell’album Anthony non si è mai tirato indietro, ha assecondato i desideri anche astrusi del gruppo e gli ha dato forma, rendendoli parte integrante della scrittura e punto di forza del progetto artistico. Senza questo personaggio a fare da sponda e da catalizzatore, “Pawn Hearts” non sarebbe mai potuto esistere.

Raffaele Astore: La copertina del disco è fantasiosa e variopinta, sicuramente una delle più interessanti anche artisticamente parlando. Ci spieghi il senso di tale produzione che racchiude in se un messaggio quasi “spaziale”?

Paolo Carnelli: La copertina dell’album è opera dell’artista inglese Paul Whitehead, celebre anche per le cover dei dischi dei Genesis, ma è stata progettata con la supervisione diretta di Hammill. L’idea era quella di visualizzare il concetto cardine presente nei testi e nel titolo dell’album, ovvero quello dei “cuori pedoni”: in pratica quello che Hammill voleva esprimere è che non importa il ruolo che apparentemente ricopriamo nella nostra vita, perché in realtà siamo tutti delle semplici pedine all’interno di un disegno, di uno schema più grande di noi. Non a caso lo sfondo con le nuvole presente sulla copertina è realizzato come se fosse una scenografia teatrale: si tratta di un riferimento evidente allo shakespeariano “all the world’s a stage”. La cosa interessante è che tutti questi “personaggi / pedoni” presenti nella copertina sono rappresentati mentre fluttuano nello spazio. E’ come se le pedine che li racchiudono si fossero trasformate in satelliti, in trasmettitori spaziali. E’ una grafica all’avanguardia. La forma della pedina in cui sono racchiusi i personaggi ricorda un po’ quella di un faro, quindi in un certo senso c’è un legame anche con il testo di A Plague of Lighthouse Keepers.

Raffaele Astore: Pawn Hearts è una lunga composizione suddivisa in più parti; potremmo parlare di suite e mini suite. Il percorso però parte già con il primo album del 1969 “The Aerosol Grey Machine”. Ciò ha investito anche in larga parte altre prog band. Ma il percorso dei VDGG è leggermente diverso; ce lo illustri?

Paolo Carnelli: Credo che si tratti di un percorso tutto sommato lineare. Se prendiamo in esame i primi quattro album del gruppo possiamo vedere chiaramente come il numero di brani presente in ogni disco sia via via sempre minore: “The Aerosol Grey Machine” contiene nove tracce, “The Least We Can Do…” sei, “H to He…” cinque e “Pawn Hearts” solo tre. Le composizioni si allargano, si ampliano fino ad arrivare con A Plague of Lighthouse Keepers ad occupare una intera facciata.

Raffaele Astore: Tu scrivi “Pawn Hearts sarà destinato a rimanere un episodio isolato, quasi deviante: se gli album dei Van der Graaf che lo hanno preceduto sembravano in parte anticiparlo, quelli successivi se ne distaccheranno infatti in modo sostanzialmente netto e deciso.” Ce ne spieghi meglio il senso?

Paolo Carnelli: E’ sufficiente ascoltare le prime note di “Godbluff” (1975), l’album che nella discografia del gruppo segue “Pawn Hearts” per avvertire una presa di distanza molto evidente rispetto alle sonorità del passato. Non c’è quasi più traccia di quella magnifica sregolatezza, di quella sana follia che aveva caratterizzato il disco del 1971. I brani sembrano più ordinati, più asciutti, più semplici… sembrano, perché in realtà la scrittura musicale è diventata molto più intricata e rigorosa. La cavalcata strumentale di Scorched Earth è probabilmente la cosa più complessa che il gruppo abbia mai realizzato. Come ha giustamente affermato Julian Cope, “Godbluff” rappresenta “il miglior album che un gruppo abbia mai realizzato dopo una reunion”. Dopo lo scioglimento del 1972 i VdGG tornano più forti di prima. Diversi, ma più forti. Peccato che il secondo periodo della produzione della band, quello del biennio 1975/76, venga spesso colpevolmente trascurato.

Raffaele Astore: Nel tuo libro parli del Six Bob tour e di come il Melody Maker, nel 1971, accoglie questo evento itinerante ed in particolare i Van der Graaf Generator. Ma ci furono anche delle posizioni opposte a quelle del Melody Maker. Non ti sembra che sostanzialmente la critica non sia poi mai riuscita a trovare una sorta di accordo per decifrare meglio i VDGG?

Paolo Carnelli: Che i VdGG non fossero destinati ad essere un gruppo di successo in patria tutto sommato era abbastanza ovvio: al di là dell’interesse di cronaca per un’iniziativa innovativa come il Six Bob Tour, gran parte della critica britannica non sapeva bene come rapportarsi con la produzione della band. Paradossalmente le cose migliorarono col tempo, dal 1975 in poi: scongiurata ogni possibilità di successo, i VdGG vennero etichettati come gruppo “di culto” e quindi coccolati da alcune firme della stampa musicale inglese come Geoff Barton su Sounds. In Italia è avvenuto il contrario: i VdGG sono stati osannati nel 1971/72 e poi criticati nel 1975/76.

Raffaele Astore: “Pawn Hearts”, scrivi ancora, “sarà un album in cui tutto è spinto all’inverosimile”; ma quanto i VDGG si sono spinti oltre il prog?

Paolo Carnelli: Quando diciamo “spingersi oltre il prog” a mio avviso rischiamo di esprimere una contraddizione in termini, perlomeno se vogliamo abbracciare l’idea di “prog” come etichetta per tutta quella produzione musicale che ha fatto della contaminazione e della sperimentazione il suo principale motore e obiettivo. E’ come dire “spingersi oltre la sperimentazione”, ma mi rendo conto che si tratta di una questione annosa su cui forse è meglio non soffermarsi. Se invece ci limitiamo al “progressive rock” inglese, è innegabile che in “Pawn Hearts” confluiscano elementi che sono estranei ad altre formazioni vicine ai Van der Graaf Generator e che fanno parte della stessa scena musicale. Il tratto distintivo dell’album a mio avviso rimane sempre quello di non porsi limiti a livello concettuale. E’ uno spingersi oltre che trascende i generi musicali e investe sia la scrittura che la parte tecnica, a 360 gradi.

Raffaele Astore: Ci spieghi meglio cosa intendi per “deriva psichedelica” che i Van der Graaf Generator avrebbero alimentato al loro interno”?

Paolo Carnelli: La deriva psichedelica presente all’interno del gruppo è quella voglia, anche infantile se possiamo utilizzare questo termine in senso positivo, di divertirsi a sperimentare con materiali e situazioni di ogni genere. E’ il prendere una radiolina e sotterrarla in vari punti in giardino per scoprire se e come si sarebbe sentito il segnale orario. E’ la foto presente all’interno della copertina dell’album, definita dai quattro musicisti frutto di uno “psychedelic nazi’s trip”. E’ David Jackson che spiega agli altri che sta andando a provare delle parti di fiati ma invece di dire “horn parts” dice “porn harts”, e da lì salta fuori il titolo del disco.

Raffaele Astore: Leggo dal tuo lavoro la dichiarazione di Hugh Banton: “Pawn Hearts” è pieno di cose assurde: rasoi psichedelici, effetti sonori, nastri mandati al contrario… volevamo provare ogni cosa. Non passavano cinque minuti senza che qualcuno di noi se ne uscisse con qualche idea assurda, e John Anthony riusciva sempre a trovare il modo di realizzarla”. Sarà stata forse l’assurdità che ha reso importante “Pawn Hearts”?

Paolo Carnelli: Certamente l’assurdità intesa come sfida, come voglia di sperimentare senza porsi limiti ha rappresentato il motore principale dell’album, non solo in sala di registrazione ma già in fase di scrittura e di composizione. In qualche caso questa smania ha portato a risultati che per l’ascoltatore possono risultare poco comprensibili, come quando la band decise di eseguire in studio ben 24 canzoni diverse del proprio repertorio, registrandole ognuna su una traccia differente, per poi mandarle in play in contemporanea ed estrapolare dalla cacofonia che si era inevitabilmente generata un frammento di pochi secondi da inserire all’interno di A Plague of Lighthouse Keepers. Quello che era importante per i quattro musicisti era cibarsi di questa idea di libertà totale di espressione, respirare questa creatività non repressa, senza freni. C’era anche molta giocosità infantile in tutto questo, come già detto, ma sempre intesa come componente positiva.

Raffaele Astore: I VDGG pubblicano “Pawn Hearts” nell’ottobre del 1971, e ad un mese appena di distanza i Pink Floyd tornano pubblicando “Meddle”. Continua in questo modo lo sviluppo di una psichedelìa prog che non ha eguali, ma a differenza di “Pawn Hearts”, “Meddle” si presenta forse un po’ impacciato. Ci sono delle similitudini secondo te tra i due lavori?

Paolo Carnelli: La similitudine principale sta ovviamente nella presenza in entrambi i lavori di due suite da oltre venti minuti come Echoes e A Plague of Lighthouse Keeper. Una differenza è invece a mio avviso la qualità degli altri brani presenti sui due album: a parte One of These Days, le altre tracce contenute in “Meddle” non sono certamente memorabili.

Raffaele Astore: In “Pawn Hearts”, i VDGG, descrivono una condizione umana intrisa di desolazione e tragedia. La musica è qui un insieme poetico e catartico ma quanto si deve in realtà ad Hammill e quanto all’intera band?

Paolo Carnelli: Come tutti sanno Hammill scriveva tutti i testi e componeva praticamente tutti i brani, che poi venivano finalizzati con il contributo degli altri musicisti che facevano parte del gruppo. Un contributo importantissimo, come testimonia la diversità tra i lavori solisti di Hammill e quelli con i VdGG.

Raffaele Astore: Pawn Hearts è un disco coraggioso, talmente coraggioso che richiede un’attenzione totale da parte dell’ascoltatore e forse, anche, una certa predisposizione. Ora ti chiedo: ma come fa un disco del genere ad arrivare al n. 1 in Italia?

Paolo Carnelli: Per la precisione, “Pawn Hearts” non arrivò mai al primo posto delle classifiche italiane. Quelle su cui ci siamo masturbati per anni sono le classifiche stilate all’epoca dalla rivista Ciao 2001, che purtroppo non erano attendibili. I dati corretti ci dicono che “Pawn Hearts” entrò in classifica il 7 marzo del 1972 al nono posto, posizione più alta raggiunta, rimanendo nei Top 100 per dodici settimane. Meglio di “Pawn Hearts” fecero sia “The Least We Can Do is Wave to Each Other”, che nel nostro paese fu pubblicato solo nel giugno del 1972, raggiungendo l’ottava posizione, che l’antologia “68-71”, la quale nell’ottobre del 1972 raggiunse la terza posizione. Entrambi i titoli stazionarono nella Top 100 per quindici settimane. Detto questo, è ovvio che in Italia nel 1972 scoppiò in modo del tutto imprevedibile una vera e propria “Van der Graaf mania”. Sicuramente la persona che portò per la prima volta il gruppo nel nostro paese, ovvero Maurizio Salvadori, aveva preparato molto bene il terreno e quindi l’attesa del pubblico per i concerti era diventata spasmodica. L’unicità e la forza del sound del gruppo, abbinata alla peculiarità della line up in cui spiccava la figura inconfondibile di David Jackson, che suonava due sax contemporaneamente filtrandoli attraverso ampli e pedali, crearono un cortocircuito di emozioni che ancora oggi è difficile spiegare. Come ha sintetizzato lo stesso Jackson, “l’Italia amò immediatamente i VdGG e i VdGG amarono immediatamente l’Italia”.

Raffaele Astore: Su questo disco ha scritto Scaruffi: “Sempre piu` lontano dalla suite psichedelica e dalla ballata folk, il romanticismo dei VDG sembra ora influenzato semmai dallo svolgimento dei temi nel sinfonismo classico.” Un tuo commento?

Paolo Carnelli: E’ ovvio che se si prendono in considerazione la coda di Man Erg o la sezione finale di A Plague of Lighthouse Keepers i riferimenti alla musica classica sinfonica sono evidenti… del resto quello è materiale proveniente principalmente dalle mani di Hugh Banton. Però a mio avviso anche un brano complesso come Lemmings può essere ricondotto nell’alveo della ballata folk per chitarra acustica e voce concepita da Hammill, su cui poi gli altri musicisti hanno sparso il loro seme. Quello che mi sembra innegabile è l’approccio psichedelico che caratterizza tutto l’album, a iniziare dai testi: il guardiano del faro che perde consapevolezza di se stesso a causa dell’isolamento, l’uomo dilaniato dagli aspetti contrastanti della sua personalità in Man Erg, la visione del protagonista che dall’alto di una montagna vede i lemmings gettarsi nel mare… la differenza rispetto a una produzione psichedelica tout court la fa come già detto la tensione verso la struttura musicale. E’ qui che si consuma il capolavoro del gruppo: giocare senza regole ma rimanendo all’interno del gioco.

Raffaele Astore:  Un’ultima domanda: dicci un motivo per cui valga la pena acquistare “Van Der Graaf Generator – Pawn Hearts (storia, immagini, parole e musica)” e “Van der Graaf Generator. La biografia italiana”.

Paolo Carnelli: Come dice anche il titolo, “Van Der Graaf Generator – Pawn Hearts (storia, immagini, parole e musica)” è un saggio che cerca di analizzare il capolavoro dei VdGG da tutti i punti di vista: credo sia un ottimo strumento per scoprire o riscoprire l’album. “Van der Graaf Generator. La biografia italiana” è, ancora prima che una biografia del gruppo, uno spaccato di un momento storico molto particolare: l’Italia del 1972/75, tra raduni pop, contestazioni, riviste musicali… l’Italia della Locanda del Lupo e del Piper 2000, dell’Alcione e dello Space Electronics. E’ una storia bellissima raccontata non solo dagli artisti e dagli addetti ai lavori ma soprattutto da chi era lì, sotto al palco.

 

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