F.E.A.R. (Fuck Everyone And Run)

marillionCon questo lavoro I Marillion ti lasciano qualcosa che mancava dopo ben diciassette album. F.E.A.R. non è solo un gran lavoro è qualcosa di più del progrock che conosciamo, forse lo è anche di altri generi che con il prog hanno un buon rapporto.

Ci sono cose nei momenti in cui c’è calma e tranquillità nel tuo angolo hi-fi che spesso dimentichi di essere seduto in poltrona. Sembra che in questo momento io stia viaggiando su un letto come uno dei personaggi pinkflodiani che ben conosciamo, ma stavolta a farmi fare questo viaggio è l’ultimo lavoro dei Marillion, quel FEAR che è un lavoro di ottimo prog come da tempo non accadeva di ascoltare. Sessantotto minuti di musica sublime sul quale non si discute e per dire ciò ci vuole ascolto ed ancora ascolto e …. alla fine ne resterete stregati.

Come per molti dei loro album i Marillion hanno utilizzato il crowdfunding per finanziare questo lavoro che è il numero diciotto di una lunga produzione. Certo che qui, sui solchi di questo F.E.A.R.  ci trovi anche musica alternativa oltre al progrock cui i Marillion ci hanno abituati, anzi questo è un progressive che sbarca nell’alternativa. Insomma ascoltare per credere.

I Marillion sono la prova evidente che la musica serve all’anima e se ascoltando questo lavoro ad occhi chiusi vi sentirete lievitare …. non preoccupatevi …. non sono effetti collaterali …. ma segnali dal futuro, un futuro che è ancora MARILLION.

Certo che quattro anni di attesa per i fan – e non solo per quelli – son valsi la pena se il risultato è questo, ottimo a mio giudizio. Il modo in cui le tracce vengono proposte dalla band sono, logicamente, quelle di ispirazione progressive ma la genuinità del prodotto sta anche nel percorso intrinseco che spazia da questioni sociali ed economiche a quelle politiche, su amori e su figli mancati.

La musica è poi il collante che unisce tutto come in certi quadri in esposizione che conosciamo, emozioni in crescendo che questo lavoro lascia volutamente sulla pelle e non solo su quella.

L’album è intriso di toni pastorali, nostalgici, ma è anche un lavoro dove tastiere e chitarra sono la base di un sound …. perfetto. Eh si, perché questa produzione è un tassello che mancava (musicalmente) nella discografia dei Marillion, Lo si capisce dagli arrangiamenti che qui, abbiam trovato a dir poco …. sublimi.

L’apertura dell’album, affidata al brano El Dorado composto da cinque movimenti che parlano del dolore causato dalle guerre, non lo si era mai trovato in apertura in un album dei Marillion (che siano stati ispirati dai Pink Floyd?), ci proietta in un’atmosfera tra il surreale ed il fantastico dove le armonie si mescolano ad una voce, quella di Steve Hogarth, che ti fa viaggiare e viaggiare, e sognare, e riflettere se ne ascolti il testo. Certo che una tal vocalità non poteva esplodere senza che ci fosse l’apporto alla chitarra di Steve Rothery, di Pete Trewavas al basso, di Mark Kelly alle tastiere e Ian Mosley alla batteria, insomma la qualità dei Marillion.

Pezzi di gran classe questi cinque movimenti che compongono El Dorado prima di arrivare all’altro brano in sequenza Living in Fear che è la progressione musicale più orecchiabile, anche a chi ha ascolti distratti o per chi poi non è così addentro agli aspetti del progressive o del rock in genere. La miscela di suoni che apre sapientemente questo pezzo porta poi a far capire come si possa sviluppare un grande pezzo, e come un gruppo di rock progressive possa diventare un’orchestra, già un’orchestra con una voce da incorniciare e tenere esposta (parlavamo prima anche di quadri in esposizione?). Di certo è questo il vero manifesto dell’intero album.

Ma le sorprese non finiscono qui infatti, proseguendo il nostro ascolto ci imbattiamo in altri cinque movimenti che compongono la suite The Leavers nel quale si racconta del lasciarsi dietro le spalle vite e famiglie per andare in tour – e qui si capisce quanto il pezzo di Hogarth sia personale – un piacere musicale quello dei tour che spesso si trasforma però in disagio. Ma se ci si riflette tutto questo capita a molti di noi che non siamo musicisti in tour …… ma è la vita. Insomma un brano personale che abbraccia tanti di noi che conviviamo spesso con situazioni che ci impongono di abbandonare il quotidiano. Ed i Marillion si son concessi ben venti minuti per raccontare tutto questo, tra ansie personali ed una musica che va oltre il prog e diventa neoprog ma di qualità. The Leavers è uno dei pezzi fantastici di questo sublime lavoro.

White Paper nella sua sublimità di ballata profonda e sognante è candidata ad essere di sicuro il brano più bello dell’album (lo scrivo mentre ascolto e capisco che è una sensazione perché qui è tutto il concept che è meraviglioso e caspita se non lo è) Pianoforte e fraseggi di chitarra richiamano ad un romanticismo e ad un crescendo che esplode nell’inciso e fa ben capire come questi Marillion siano destinati a durare ancora nel tempo. E pensare che la prima volta che ascoltai i Marillion non ero poi tanto entusiasta come lo sono ora.

Con The New Kings  i Marillion raggiungono l’apice tra orchestrazioni, assoli di chitarra, pianoforte, cori fiabeschi, sonorità che amiamo che si snodano su quattro movimenti. Il primo di questi si apre con la voce di Hogarth che è sognante per chi la ascolta anche se in realtà racconta di superpotenze che si conquistano tutte le ricchezze del mondo a spese dei comuni mortali, noi. Il secondo movimento di questo pezzo, Russia’s Locked Doors colpisce in maniera forte i nuovi padroni che nel giro di pochi anni hanno dissolto i vecchi valori sovietici, quasi un ritorno all’epoca degli zar. Eh già, sarà un caso, ma il nuovo padrone delle repubblica sovietica è soprannominato Lo Zar? Un modo come un altro per dire che alla fine chi cade e chi soffre non sono gli zar ma il popolo, i comuni mortali che qui sono rappresentanti nel finale da uno dei più bei pezzi di chitarra solista contenuti nell’intero disco.

L’introduzione di chitarra di Steve Rothery spiana la strada sonora all’ingresso canoro di Steve Hogarth che non smette di farti sognare anche in questo Scary Sky che è l’introduzione al progressive del successivo Why Is Nothing Ever True. Qui chitarra e pianoforte si inseguono in un succedersi di note che mai si intrecciano ma lasciano ampio spazio alle sonorità degli strumenti. Qui le tastiere aprono la mente a sconfinati paesaggi dove effetti alla floydiana maniera ti catapultano in ciò che non può essere … il magnificat di un album che da qui a breve (secondo me) diventerà storico, citato più e più volte nei riferimenti progressive, nei siti, nelle riviste, nelle enciclopedie o in chissà cos’altro ancora. Sarà forse perché questo pezzo ci ricorda anche suoni alla Yes? Ricorda si, ma i Marillion son tutt’altro!

Quando giungerete ad ascoltare Tomorrow’s New Country sarete pervasi da una profonda tristezza, già perché forse non ve ne siete accorti ma siamo giunti alla fine di questo splendido e superbo lavoro dei Marrillion che, così come hanno aperto, chiudono questo FEAR che ha qualcosa di … oltre.

Sarà che questo disco è stato registrato in parte anche negli studi di un certo Peter Gabriel, sarà che questi Marillion sanno il fatto loro, di certo non c’è da meravigliarsi se la band inglese sforna lavori così sublimi.

Anzi no: meravigliatevi, meravigliatevi e ancora meravigliatevi

Pubblicato sul sito di rock progressive Psycanprog

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