Genesis – Selling England by the Pound

genesisIl miglior disco dei Genesis, composto da otto brani di cui uno di essi è un breve e infelice riempitivo, si intitola “More Fool Me” ed è cantato dal batterista Phil Collins, data la rinuncia del frontman Peter Gabriel.  La musica è flebile, un grumo di accordi di chitarra 12 corde suonata dall’autore Michael Rutheford, una debole melodia ed un banale testo d’amore, interpretato “di testa” da Collins, in una velleitaria ricerca di dolcezza e romanticismo: inutile.

Altro riempitivo è lo strumentale “After The Ordeal”, questo però più che dignitoso: si divide in due parti, il primo è un intreccio tardo romantico fra pianoforte e chitarra 12 corde, brillante ma didascalico, che si risolve in un tema condotto dal chitarrista Steve Hackett sulla sua Les Paul iperdistorta, con quel suono dal sostegno infinito mutuato dal maestro Fripp dei King Crimson, però più dolce e rotondo, che diverrà uno dei suoi marchi di fabbrica. Stavolta è il tastierista Tony Banks a detestare il brano, pur suonandovi attivamente.

Vi è poi un episodio assai più ambizioso e abbondante, progettato bene ma finito maluccio, a colpi di rivalità fra i membri del gruppo: “The Battle Of Epping Forest” voleva/doveva essere un grande, ironico e brillante affresco descrittivo di una battaglia, fra nemici molto buffi e buontemponi. Il grande cantante Gabriel piscia però fuori del vaso, crogiolandosi troppo con la sua recitativa voce e guarnendo i quasi dodici minuti del pezzo di un testo chilometrico, che finisce per sovrapporsi anche a certi passaggi concepiti dai compagni per restare strumentali, con grande scorno soprattutto del tastierista: non male, ma un mezzo fallimento rispetto alle premesse.

Il brevissimo pezzo di chiusura “Isle Of Plenty” riprende melodie già presenti nell’album ed ha mera funzione di epilogo e commiato, nulla aggiungendo o togliendo a quanto lo precede.

I Know What I Like” è il singolo (abbastanza) trainante: bell’arrangiamento, con un ipnotico riff di Hackett al sitar elettrico, creativi giri di basso di Rutheford, ritornello ruffianetto e facile facile. In un contesto così progressive, ci sta proprio bene questa spruzzata di pop (ancor lontani i futuri abusi in proposito che il gruppo deciderà di perpetrare, una volta ridotto a trio).

Le restanti tre composizioni sono tutte squisiti capolavori e rappresentano una cospicua fetta della torta Genesis, in bella mostra nel frigorifero storico della pasticceria progressive. La prima che si incontra apre spettacolarmente l’album ed è “Dancing With The Moonlight Knight”. La voce inestimabile di Gabriel intona a cappella i primi versi e crea da sola subito l’atmosfera, così incredibilmente adulta (Peter ha ancora 23 anni) e dolente. La melodia cambia continuamente, il supporto strumentale è ora delicato, ora fragoroso e ritmicamente spezzato, non si capisce dove si andrà a parare ma a quel punto risolve Collins: parte in shuffle terzinato a 190 battute al minuto, sparato, in maniera inaudita.

Gli salta allora addosso Hackett che, aiutandosi anche colla mano destra sulla tastiera (tecnica “tapping”, con i suoi campioni Van Halen e Steve Vai ancora ben di là da venire), rovescia semicrome come se piovesse. Stacco di Collins ed arriva un gigantesco mellotron, la chitarra continua a furoreggiare anche sopra di esso, stavolta con note staccate e lancinanti: si gode di brutto, è l’acme del pezzo. Poi ritorna Gabriel per continuare la storia e portarla verso una nuova sezione strumentale, stavolta più singhiozzante, a botte e risposte di sintetizzatore e ancora chitarra solista, finché tutto si acquieta, per una (troppo) lunga coda eterea a sfumare. Un minutino di troppo forse, per una minisuite comunque sensazionale, innovativa, affascinante, dinamicissima.

Una mirabile fughetta al pianoforte, che diverrà esercizio obbligato per legioni di praticanti di questo strumento, inaugura la monumentale “Firth Of Fifth”. Preludio difficilotto da eseguire anche per il suo autore: Banks lo sopprimerà ben presto nelle esibizioni dal vivo, dopo un rovinoso incespicamento occorsogli una sera. Quando entrano gli altri strumenti l’andamento diviene solenne e marcato, Gabriel vi declama a tutto andare il tipico testo medievaleggiante e glorioso dei Genesis di allora, inaugurando poi la sezione strumentale con il suo più celebre tema al flauto, contrappuntato dagli altri con competenza.

Il pallino passa quindi all’ombroso ma geniale Tony Banks, che prima suona un pianoforte andante, incrociando le mani per creare arpeggi amplissimi, e poi esplode su furiosissimi tempi dispari un super arpeggio di sintetizzatore, a tutto volume, spalleggiato da una gran ritmica, impetuosa soprattutto in Collins. Sembra l’apoteosi e invece è solo l’introduzione al solo di Steve Hackett, giustamente fra i più celebrati di tutto il progressive.

L’omino (allora) con baffi, pizzo e occhiali, nei precedenti dischi ultima ruota del carro Genesis, stampa qui l’assolo della vita: armato di Gibson, di doppio distorsore “dolce” in grado di prolungargli il suono all’infinito senza però inasprirlo, nonché di pedale del volume, Hackett parte dallo stesso tema eseguito al flauto da Gabriel tre minuti prima e lo sviluppa in completa gloria, vera e propria canzone dentro la canzone, con le note di chitarra che danzano sinuose e rotonde e poi lancinanti sul tappeto di mellotron, reso in certi punti tonitruante dalle bordate della pedaliera di bassi di Rutheford. Talmente bello questo assolo che, quando si smaterializza e ritorna la stessa parte cantata dell’inizio, adesso invece che solenne e gloriosa essa sembra farraginosa e opaca, fino a risolversi e terminare di nuovo col solo pianoforte: meraviglia.

Basterebbe questo, invece c’è ancor di meglio: “The Cinema Show” illude con una prima parte quieta e romantica, disegnata dagli arpeggi della 12 corde e dalla delicatezza degli interventi di tutti gli altri. Gabriel narra di questa coppia (Romeo e Giulietta…) che parla di andarsene al cinema ma forse progetta un incontro sessuale e quando ha finito di cantare parte anche un assolino di chitarra, un poco dimesso. Ma l’hanno fatto apposta perché un’improvvisa pennatona di Rutheford sulla 12 corde determina il cambio di ritmo, di atmosfera, di tutto.

Parte il Cinema Show, o meglio il sesso fra i due protagonisti ed è una magnifica cavalcata in sette ottavi, eseguita in trio senza Gabriel e senza Hackett. Banks, Collins e Rutheford (in pratica i futuri Genesis degli anni ottanta e novanta…) si scatenano: Rutheford è alla 12 corde ritmica, poi passerà al basso; il batterista viaggia pulito, tecnico e creativo nelle compatte sincopi del tempo dispari;  Banks volteggia con quello che oggi potrebbe essere considerato un giocattolo: un sintetizzatore ARP presettato, con poche decine di suoni fissi e immutabili. Il tastierista ne usa cinque o sei, spalleggiandoli con l’organo Hammond od il mellotron, alternando veloci scale ad accordi potenti e chiesastici. I fuochi d’artificio durano quasi cinque minuti e rappresentano a mio giudizio il meglio del meglio di questo gruppo, almeno dal punto di vista strumentale.

Anno 1973

Brani 

1. Dancing With The Moon

2. I Know What I Like (In Your Wardrobe)

3. Firth of Fifth

4. More Fool Me

5. The Battle Of Epping Forest

6. After The Ordeal

7. The Cinema Show

8. Aisle of  Plenty

Casa Discografica Atlantic Records

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